mercoledì, agosto 29, 2012

CUSTODE E PROTETTORE

            Poco dopo avviene l’arrivo dei Magi a Betlemme. La venuta di questi sapienti che vengono da Paesi lontani, indica la chiamata di tutti i popoli a riconoscere in Gesù il Salvatore: l’epifania, la sua manifestazione. Si fanno guidare da una stella, dal Cielo, alla ricerca del Signore. Maria e Giuseppe rappresentano nell’arco dei secoli questa stella che guida ogni uomo. Diciamo che Giuseppe rimane più sullo sfondo, come un’ombra e come è il suo stile; non si tira indietro davanti alla sua cura paterna e a quanto gli compete nella sua autorità di capofamiglia, ma non ha la smania del protagonista e sa stare umilmente al suo posto. Sa rappresentare - con discrezione - “l’ombra del Padre”, la “nube” che porta la sua presenza, come nuova teofania. Nel quadro della Santa Famiglia, si può dire che la sua parte è quella dell’ombra che stempera lo splendore degli altri due personaggi. I magi portano oro, incenso e mirra; se ne servirà per affrontare le prime emergenze. Avvertono i genitori delle cattive intenzioni del re Erode, che intende mantenere il proprio potere a scapito degli innocenti. Giuseppe in questo periodo si era dedicato ad aggiustare una casa per dimorarvi, ma ora le cose cambiano. Un angelo (sarà forse lo stesso della prima volta) gli appare in sogno e gli dichiara la volontà di Dio: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo” (Mt 2,13). Giuseppe non perde tempo, subito si alza, nella notte, prende il bambino e sua madre e si rifugia in Egitto, all’incirca a una decina di giorni di cammino. Colpisce questo suo immediato eseguire quello che il Signore gli domanda. Se c’è un modello di chi non fa altro che la volontà di Dio, sempre, subito e con gioia, questo modello straordinario è proprio san Giuseppe. Non ha tentennamenti e indecisioni, la prontezza lo distingue, questo è il suo stile e la via che percorre senza sbandare. Ognuno in effetti sul suo esempio ha da seguire la volontà di Dio come bussola permanente che indica il cammino: possiamo dire che questa è la vocazione comune, il destino universale, il progetto di vita a cui deve richiamare ogni educatore. Il fatto che Gesù, Giuseppe e Maria si recano in Egitto, rinnova la storia delle origini di Israele, quando circa 1800 anni prima i 12 figli di Giacobbe si rifugiano in terra egiziana a causa della carestia, quando l’antico Giuseppe, prefigurazione di Cristo e del nostro santo, accoglie lì i suoi fratelli. La sua famiglia si salva grazie a lui. Ed ora la Santa Famiglia si salva grazie al nuovo Giuseppe. Tutti e due imparano a leggere i segni di Dio nei sogni e li sanno interpretare. Tutti e due trovano rifugio in Egitto. Tutti e due difendono la castità. Tutti e due sono salvatori della famiglia loro affidata. Diciamo pure che entrambi sono protettori della loro discendenza: salvatori dell’antico e del nuovo popolo di Dio. Verso ambedue si può rivolgere l’invito biblico: “Andate da Giuseppe. Fate ciò che vi dirà” (Gen 41,45), o anche: “la nostra salvezza è nelle tue mani” (Gen 47,25). Vale pure per il nostro Giuseppe la benedizione del patriarca Giacobbe: “Le benedizioni di tuo padre sono superiori alle benedizioni dei monti antichi, alle attrattive dei colli perenni. Vengano sul capo di Giuseppe e sulla testa del principe tra i suoi fratelli!” (Gen 49,25-26). E ancora: si potrà trovare in definitiva un padre come lui? “Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?” (Gen 41,37). E’ significativa la sua definizione: “Germoglio di ceppo fecondo è Giuseppe”, figlio che cresce e di grande bellezza (cfr Gen 49,22). Anche il sogno sul sole e la luna, con le 11 stelle che gli si prostrano davanti (cfr Gen 37,9), sembra prefigurare la gloria del destino di entrambi. Giustamente san Giuseppe è proclamato Patrono di tutta la Chiesa nel mondo. Come ha protetto allora la Santa Famiglia, così sempre protegge i suoi figli, la famiglia di Dio oggi sparsa sulla terra (cfr Leone XIII, enciclica Quamquam pluries). C’è da riflettere pure sul fatto che Giuseppe in Egitto, forse nella zona del Cairo dove si tramandano i ricordi della Santa Famiglia, prova sulla sua pelle la condizione di straniero ed emigrato, si direbbe di rifugiato politico, in condizioni avverse. Si adatta e vive con fede la situazione di disagio e sofferenza, trovandosi senza una casa e un lavoro, domandandosi continuamente che cosa Dio gli chiede. Nonostante l’ingiustizia subita, il lavoro precario e sottopagato, lo sfruttamento nel guadagno risicato e nella retribuzione, si dà da fare con coraggio e pazienza. Con gli stranieri impara anche un po’ di latino e greco. E’ un uomo forte e pieno di risorse. La professionalità non gli manca e la affina con esperienze diverse. Sa cogliere il bene da tutto e da tutti. A lui possono rivolgersi con fiducia, dato che conosce i loro problemi e sentirlo assai vicino, tutti quelli che soffrono, esuli, immigrati, disoccupati, sfruttati ed oppressi. Anche chi patisce ingiustizie per lo strapotere dei corrotti e dei prepotenti, chi è coinvolto in una “strage degli innocenti” che si perpetua per colpa di qualche “Erode” di turno, può affidarsi alla sua protezione. Giovanni Paolo II ha definito Giuseppe “Custode del Redentore”, nella lettera apostolica a lui intitolata. E’ una bella definizione, che gli calza a pennello, specie in questo frangente dell’esilio in Egitto. Davvero custode e protettore, scudo e difensore, del Figlio divino venuto per redimere gli uomini. Riconoscendo la sua funzione, chiaramente al servizio del mistero dell’Incarnazione, viene dichiarato dal Papa “ministro della salvezza” (RC 8). Nella Redemptoris Custos afferma: “Come Israele aveva preso la via dell’esodo, dalla condizione di schiavitù, per iniziare l’Antica Alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la Nuova Alleanza” (RC 14). Cristo risorto, sempre vivo ed operante, rimane con noi “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” secondo l’espressione del Vangelo (Mt 28,20). Nell’attuale società, complessa e non di rado secolarizzata,  dove non manca chi vorrebbe estromettere Gesù e la fede in Lui, è necessaria la missione di san Giuseppe che lo difende e lo protegge, con la sua opera di intercessore dall’alto e attraverso i suoi fedeli che combattono col suo aiuto e il suo esempio.  Dice Benedetto XVI: “La santa Famiglia di Nazareth ha attraversato molte prove, come quella – ricordata nel Vangelo secondo Matteo – della “strage degli innocenti”, che costrinse Giuseppe e Maria ed emigrare in Egitto (cf 2,13-23). Ma, confidando nella divina Provvidenza, essi trovarono la loro stabilità e assicurarono a Gesù un’infanzia serena e una solida educazione” (26.12.2010). Altra ispirazione che la fuga in Egitto rilancia è l’incontro con altri popoli, di razze e religioni diverse, che nel dialogo e nel rispetto reciproco porta a diffondere l’accoglienza e la fede. Il contatto con altre credenze e tradizioni educa pure all’apertura verso il pluralismo, l’ecumenismo e l’impegno interreligioso. Non è da trascurare pure il legame che Giovanni Paolo II fa partendo da questo episodio, riguardante la difesa della vita, e la lotta contro l’aborto e l’eutanasia: “Giuseppe di Nazaret, che salvò Gesù dalla crudeltà di Erode, ci si presenta in questo istante come un grande sostenitore della causa della difesa della vita umana, dal primo istante del concepimento sino alla morte naturale” (4.6.1997). Morto il re Erode, di nuovo l’angelo gli appare in sogno e gli dice: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino» (Mt 2,20). Ovviamente Giuseppe si alza, prende il bambino e sua madre e torna in Israele. Si rinnova così come un nuovo Esodo verso la terra promessa, un altro Mosè che porta la nuova Legge nel figlio divino, si prepara l’entrata del vero liberatore. Prende nuova luce la profezia: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Mt 2,15). Al posto di Erode regna il figlio Archelao, da cui conviene stare alla larga. La paura però non lo blocca, agisce con prudenza, non si ferma in Giudea e si stabilisce in Galilea, il luogo d’origine prima della nascita di Gesù. Lì risistemano la loro casa e mettono tutto in ordine, dopo alcuni anni di assenza. “Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno» (Mt 2,22-23). Gesù verrà presentato da questo momento col nome del padre e di quella località: “Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret” (Gv 1,45). Come sempre, è avvertito da un angelo. Come è importante ascoltare la voce degli angeli! Come è tutta un’altra cosa quando l’esistenza è affidata a loro – che sono i nostri custodi - e guidata dalla loro protezione. Anche questo è un insegnamento prezioso del Custode del Redentore, che si potrebbe addirittura chiamare “salvatore del Salvatore”. Il Servo di Dio Eugenio Reffo, da considerare un maestro di spiritualità Giuseppina, nella tragedia della prima guerra mondiale, quando parecchi confratelli erano al fronte, rammentava loro l’esilio in Egitto vissuto da san Giuseppe e li aspettava al ritorno a casa come a una nuova Nazaret (cfr A. Catapano, Per amore di san Giuseppe, 2006). Sono veramente grandi i sogni di Giuseppe, attraverso i quali si compiono i disegni di Dio. Si capisce la lezione del nostro santo: rimane un valore educativo da non trascurare, nei confronti dell’emigrazione e di un ideale di integrazione dell’umanità, quello del mondo unito, quello di essere aperti verso il diverso e accoglienti con lo straniero. Si apre non una via di sopraffazione e oppressione, ma di giustizia e di pace; come dice il salmo per la venuta del Messia: “Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo” (Sal 84). E’ l’anticipo della beatitudine che sarà proclamata più tardi e che qui Giuseppe realizza: “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,10). Quando si è più piccoli e indifesi, più a rischio e minacciati, c’è assoluto bisogno di chi sappia proteggere. Chi meglio del nostro santo, Custode e Protettore per antonomasia?
Angelo Catapano

sabato, agosto 18, 2012

LA MIGLIORE PRESENTAZIONE

Dopo otto giorni, secondo la legge di Mosè e con l’aiuto di un esperto (mohel), Giuseppe assoggetta il Bimbo alla circoncisione, segno dell’appartenenza al popolo di Dio, e gli impone il nome Gesù. Esercita così la sua paternità a tutti gli effetti: davanti alla Legge e davanti a tutti riconosce suo figlio e riconosce se stesso come padre. D’ora in poi tutti i padri del mondo possono rispecchiarsi in lui. L’angelo in sogno gli aveva indicato quel nome e se lo ricorda bene: “tu lo chiamerai Gesù, egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). L’etimologia svela la grandezza del suo significato: “Dio Salvatore”. E’ dunque venuto chi porta la salvezza. Una salvezza che apre a più vasti orizzonti, dato che non riguarda la sopraffazione politica di una nazione (la Palestina), ma la remissione dei peccati del mondo intero. In questa occasione si prega: “Dio nostro, e Dio dei padri nostri, conserva questo bambino al padre suo e alla madre sua ed il suo nome in Israele sia Gesù figlio di Giuseppe. Possa suo padre rallegrarsi in lui, e la madre sua esulti nel frutto del suo seno!”. San Giovanni Crisostomo, rivolgendosi a Giuseppe, mette in bocca all’angelo queste parole: “Non pensare che, essendo Egli dallo Spirito Santo, tu sia estraneo a servire il suo piano. Benché tu non apporti nulla alla sua generazione, tuttavia ciò che è proprio del padre, questo ti conferisco. Tu gli darai il nome. Benché, infatti, egli non sia tuo figlio, tu avrai nei suoi riguardi la cura paterna. Perciò, fin dalla stessa imposizione del nome, ti unisco al bambino in luogo di padre”. Commenta p. Danieli: “Dio chiedeva a Giuseppe di porre il nome ‘Gesù’ al bambino. Porre il nome ad un bambino significava accoglierlo come proprio figlio: il Signore affidava dunque a Giuseppe, come figlio, quel piccolo bambino che non aveva padre fra gli uomini. Lo rendeva figlio pienamente suo. Di fronte a tutti, Gesù apparteneva a lui perché figlio di Maria, sua sposa. Per volontà del Signore, Giuseppe era diventato padre rimanendo vergine” (op. cit. p. 53). Paolo VI esalta e definisce il ruolo paterno di Giuseppe: “Diede a Gesù non i natali, ma lo stato civile, la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’ambiente familiare, l’educazione umana” (19.3.1964). Benedetto XVI aggancia l’esempio di san Giuseppe all’impegno educativo di ogni padre di famiglia: “Giuseppe è, nella storia, l’uomo che ha dato a Dio la più grande prova di fiducia, anche davanti ad un annuncio così stupefacente. E voi, cari padri e madri di famiglia che mi ascoltate, avete fiducia in Dio che fa di voi i padri e le madri dei suoi figli di adozione? Accettate che Egli possa contare su di voi per trasmettere ai vostri figli i valori umani e spirituali che avete ricevuto e che li faranno vivere nell’amore e nel rispetto del suo santo Nome?” (19.3.2009). Gli episodi dell’infanzia del Signore che si susseguono non sono dei semplici racconti, ma hanno tutto il sapore di “gesti salvifici”, come evidenzia Giovanni Paolo II (cfr RC 27): sono effettivamente i “misteri della vita nascosta” di Gesù, come si esprime il titolo del Catechismo della Chiesa cattolica (522-534). Si realizza gradualmente il passaggio dall’antica alla nuova alleanza. Tra i primi beneficiari troviamo proprio san Giuseppe: il padre lo fa circoncidere e lo inserisce nel popolo di Israele; nel medesimo tempo quel Figlio comincia con lui la sua opera di redenzione. Dopo 40 giorni è il momento della purificazione della madre e della presentazione del bambino al tempio. I genitori lo portano allora da Betlemme a Gerusalemme per offrirlo al Signore, per il riscatto del primogenito in osservanza della Legge. Giuseppe dona in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, l’offerta tipica dei poveri e dei meno abbienti, invece che l’agnello da immolare. Può entrare nella parte riservata agli uomini insieme al figlio nell’atrio degli israeliti ed avvicinarsi al Santo dei santi. Maria rimane più in disparte nel cortile, dove possono entrare le donne. Il vangelo nota che “il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui” (Lc 2,33). E’ da notare che Luca li chiama senza mezzi termini “il padre e la madre”. Il vecchio Simeone li benedice e scopre che nel bambino è venuta la salvezza, profetizza che sarà segno di contraddizione e aggiunge rivolgendosi alla madre: “anche a te una spada trafiggerà l'anima” (Lc 2,35). E’ una premonizione gravida di sofferenza per ambedue i genitori, i quali capiscono fin d’ora che la loro via, come quella del figlio, non è affatto facile e spianata. E’ interessante anche qui che Luca li definisca in tutta semplicità “genitori”. Giovanni Paolo II commenta al riguardo: “”In Giuseppe, chiamato ad essere il padre terreno del Verbo incarnato, si riflette in modo del tutto singolare la divina paternità. Giuseppe è padre di Gesù, perché è effettivamente lo sposo di Maria. Ella ha concepito vergine, per opera di Dio, ma il bambino è anche figlio di Giuseppe, suo legittimo marito; per questo entrambi sono detti nel Vangelo ‘genitori’ di Gesù (Lc 2,27.41)”. E’ significativo a questo punto che il Papa lo chiami col titolo forte “padre terreno del Verbo incarnato”. C’è da aggiungere che la presentazione al tempio si prolunga oggi in tutti i cristiani, i quali sul modello di Giuseppe e di Maria hanno il compito essenziale di presentare al mondo Cristo, “luce delle genti” (Lc 2,32). Qui si trova la funzione sostanziale della Chiesa, chiamata a custodire e a far crescere la presenza del Signore in ogni luogo e in tutta la storia: questa è eminentemente la missione di san Giuseppe. Nella sua figura – come in quella della sua Sposa - è dunque da riconoscere l’Immagine della Chiesa, il nostro dover essere. E’ pure un impegno genuinamente ecumenico, rivolto “a tutti i popoli”, come profetizza Simeone (cfr Lc 2,31). Qui d’altronde troviamo l’icona più evidente del nostro santo, che viene raffigurato generalmente col Bambino in braccio. Davvero san Giuseppe viene a noi con la sua paternità educativa, non porta se stesso ma Gesù. Non c’è presentazione migliore di questa!

Angelo Catapano

giovedì, agosto 09, 2012

L’ACCOGLIENZA DEL BAMBINO

            A Betlemme, come narra il vangelo di Luca, Giuseppe e Maria non trovano posto dove alloggiare. Dev’essere stata un’esperienza desolante, acuita dal fatto che la moglie è incinta ed è ormai arrivata l’ora del parto. Avrebbero voluto preparare al figlio la migliore accoglienza, ma si vede che quello che conta è il loro cuore accogliente più di ogni altro. Chiunque è rifiutato nel mondo, non è accolto e non trova posto per tanti motivi, può trovare nella loro esperienza a Betlemme il paradigma della loro condizione. Non si ribellano e non disperano, non si lamentano col Signore e continuano a confidare in Lui. Si adattano in una grotta per animali e lì avviene il Natalenella pienezza del tempo” (Gal 4,4). In una mangiatoia nasce il Salvatore, tra le braccia dei genitori scelti in questo mondo. La madre e il padre l’accarezzano e lo baciano. Giuseppe certo si dà da fare per rendere più agevole e meno penosa la nascita del figlio. Non è distratto in altre faccende  e non fa la parte di semplice comparsa, come a volte lo si raffigura nei presepi o come fosse una cornice in certe rappresentazioni. E’ tutto compreso dal mistero che lo avvolge e dai presentimenti di ciò che lo aspetta. Finché non si diventa padri e madri, non si assumono in pieno le responsabilità e non si arriva alla maturità. Ora è il momento giusto per i genitori di fare il passo definitivo. Osserva Benedetto XVI: “Quant’è importante che ogni bambino, venendo al mondo, sia accolto dal calore di una famiglia! Non importano le comodità esteriori: Gesù è nato in una stalla e come prima culla ha avuto una mangiatoia, ma l’amore di Maria e di Giuseppe gli ha fatto sentire la tenerezza e la bellezza di essere amati. Di questo hanno bisogno i bambini: dell’amore del padre e della madre. E’ questo che dà loro sicurezza e che, nella crescita, permette la scoperta del senso della vita” (26.12.2010). San Leonardo Murialdo (1828-1900), fondatore di una congregazione intitolata a san Giuseppe, sottolinea: “Da quel momento Giuseppe non vive più che per Gesù; non ha più cura che di lui; egli assume per lui cuore e tenerezza di padre e diviene per affetto ciò che non è per natura”. Le promesse si avverano: “il Verbo si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). È questa la Parola che viene rilanciata per sempre, grazie a chi gli fa da padre e da madre. Tutto è avvenuto secondo le profezie, Dio è con noi, grazie anche alla disponibilità di Giuseppe: “Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi” (Mt 1,23). Non deve essere fatta nessuna obiezione sulla paternità di Giuseppe, come è affermato da Giovanni Paolo II: “Giuseppe è il padre. Non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure essa non è ‘apparente’, o soltanto ‘sostitutiva’, ma possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia”. Continua: “E' contenuta in ciò una conseguenza dell'unione ipostatica: umanità assunta nell'unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l'assunzione dell'umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe”. E’ un dono ineffabile di cui lui stesso si rende conto un poco alla volta: “Giuseppe, il quale fin dall’inizio accettò mediante ‘l’obbedienza della fede’ la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità” (RC 21). Da un lato sappiamo che il figlio non è tanto di chi lo fa ma di chi lo cresce, come giustamente dice il detto popolare. Dall’altro occorre considerare che i figli non sono di assoluta proprietà dei genitori, ma piuttosto sono figli di Dio. Afferma Benedetto XVI: “Il bambino non è proprietà dei genitori, ma è affidato dal Creatore alla loro responsabilità, liberamente e in modo sempre nuovo, affinché essi lo aiutino ad essere un libero figlio di Dio". Tanto più nel caso unico di Giuseppe e di Gesù, in cui queste parole sono da prendere alla lettera. Accogliere l’Emmanuele che viene, guardando a Maria e a Giuseppe, è la chiamata per ognuno. I pastori del luogo, avvertiti dagli angeli che annunciano “una grande gioia” (Lc 2,10), vi si recano e trovano lì quello che cercano: il Bambino, Maria e Giuseppe (cfr Lc 2,12). Gli angeli proclamano l’evento: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” (Lc 2,14). I pastori non hanno da portare che piccoli doni, nella loro povertà, ma li offrono con semplicità; soprattutto portano se stessi e la loro gratitudine a quella famiglia che intuiscono come straordinaria, calata dal Cielo sulla terra. In tutti i tempi, tutti sono chiamati a fare questo pellegrinaggio verso quei tre personaggi che compongono la Santa Famiglia. Verso Gesù, Maria e Giuseppe deve andare ciascuno e ogni famiglia, rinnovando quel primo Natale della storia, sull’esempio dei pastori, nel viaggio della propria vita. A quel modello ci si deve rifare, tanto più se si pensa come sia minacciata da più parti l’idea stessa di famiglia, composta da marito e moglie e dai figli, congiunta nel matrimonio. A quell’ideale si deve ispirare ogni comunità cristiana, cementata dal Signore in mezzo ai suoi (cfr Mt 18,20) e dal comandamento dell’amore vicendevole (cfr Gv 15,17), vedendo in quella Famiglia l’icona della Trinità terrestre, immagine di quella celeste. E’ un compito ineludibile, da parte di tutti e delle istituzioni preposte, sostenere le famiglie, aiutare i genitori, mettere al centro il bambino e salvaguardarne i diritti. L’accoglienza dell’educatore verso il Bambino, e in Lui di tutti i bambini, è un principio non negoziabile.
Angelo Catapano

giovedì, agosto 02, 2012

IL PROGETTO DI VITA

            Se pensiamo a persone attente ai segni di Dio e del tempo, che captano la voce che viene dal Cielo, che sanno ascoltare l’ispirazione dell’anima, che percepiscono anche l’impercettibile, dobbiamo pensare a Maria e Giuseppe. La legge del Signore è da loro studiata e meditata, pregata e vissuta. Sono attenti al suo progetto, lo riconoscono e lo seguono. Sanno che la storia della salvezza, a cominciare da Abramo e da Mosè, è anche la loro storia. La Torah, i comandamenti, la preghiera dei salmi, le vicende dei padri e dei profeti, è il pane della loro vita. Vedono anche negli avvenimenti, nelle regole della comunità giudaica e nelle leggi civili, un disegno di Dio. Perciò sono pronti ad accogliere gli annunci celesti e anche terrestri. Notte e giorno ascoltano la sua voce: “Beato l’uomo che si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte. Sarà come albero piantato su corsi d’acqua” (Sal 1,1). C’è il censimento ordinato dall’imperatore Cesare Augusto, c’è da recarsi nel paese d’origine, da farsi registrare… Tutto è visto con gli occhi della fede; è il Signore che lo vuole e a lui si ubbidisce. Se ci sono difficoltà vuol dire che così deve essere e tutto gli offrono. Non c’è da scoraggiarsi perché Lui aiuterà. Intraprendere la via giusta, seguendo la volontà divina, è l’insegnamento universale che ne proviene. Fare le proprie scelte di vita, senza interrogarsi sul progetto di Dio, inseguendo i propri desideri o ambizioni, è un grosso rischio. Compito dell’educatore è innanzitutto abilitare a scoprire il senso della vita, la propria vocazione e quello che deve essere il progetto da perseguire. E’ così che decidono di andare a Betlemme, nella terra del re Davide e della propria tribù, a pochi chilometri da Gerusalemme. Tutto è provvidenziale. E’ lì, dove è nato Davide mille anni prima, il luogo della nascita del Messia. Non per niente l’angelo in sogno lo aveva chiamato con quell’appellativo che lo ricongiunge alle generazioni precedenti e alle antiche promesse:”Giuseppe, figlio di Davide!” (Mt 1,19). Appellativo che in seguito passerà a Gesù stesso nella sua vita pubblica (cf Lc 18,38). E’ proprio grazie alla discendenza davidica di Giuseppe che è trasmessa al figlio divino il compimento della storia della salvezza. Non è certo l’anello debole della catena genealogica. I vangeli di Matteo e Luca la ricostruiscono e riannodano gli eventi, concludendo: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo” (Mt 1,16). Sant’Agostino osserva al riguardo: “Abbiamo esposto a sufficienza il motivo per cui non deve turbarci il fatto che le generazioni sono enumerate seguendo la linea genealogica di Giuseppe e non quella di Maria; come infatti essa è madre senza la concupiscenza carnale, così egli è padre senza l’unione carnale. Quindi le generazioni discendono e ascendono tramite lui. Non dobbiamo quindi metterlo da parte perché mancò la concupiscenza carnale” (Sermo 51). Sta esattamente in Giuseppe il punto di congiunzione tra l’antico e il nuovo Testamento, tra quanto prima era stato preparato e il nuovo che comincia. Giuseppe: ultimo erede della promessa, l’ultimo dei patriarchi e il primo dell’era cristiana. Come e più che nella scelta di Davide, il Signore trova in lui “un uomo secondo il suo cuore” (cfr 1 Sam 13,14) a cui affidare i tesori più preziosi. Si avvera il disegno di Dio, che da sempre ha pensato a lui e alla sua sposa e li ha prescelti. Bisogna sottolineare l’importanza di questa chiamata che porta san Giuseppe a rappresentare la stessa paternità divina. Dichiara Giovanni Paolo II: “Con queste parole il Padre celeste chiama Giuseppe, discendente della stirpe di Davide, a partecipare, in modo speciale, alla sua eterna paternità” (19.3.1993). E’ davvero grande il suo destino. Il viaggio dalla Galilea alla Giudea, da Nazaret a Betlemme, circa 150 km, dura 4 giorni e 3 notti. E’ un percorso impervio e comporta un certo rischio, tra le valli e le montagne, il deserto e i predoni. E’ rappresentativo del cammino che ognuno deve fare alla ricerca del Signore, che tutti i popoli sono chiamati a fare per scoprire il Salvatore di tutte le genti. E’ in perfetta sintonia col tempo liturgico dell’Avvento e del Natale. Un cammino che già si pregusta sull’esempio di Maria e di Giuseppe e in loro compagnia. Richiama pure l’itinerario educativo, con le sue mete e i suoi obiettivi, con le tappe e gli strumenti da approntare, per realizzare il progetto di vita.
Angelo Catapano