PADRE DAVVERO
Quest’anno in occasione della festa di San Giuseppe, nostro patrono e nostro modello, a pochi mesi ormai dal Capitolo Generale XXII, vorrei condividere con voi qualche riflessione riferendomi, ancora una volta, all’icona evangelica - amata, discussa, celebrata, criticata… bella, dunque, nella sua complessità -, che esprime il tema del prossimo capitolo: riscoprire nel nostro essere educatori cristiani dei giovani il cuore del nostro carisma, la sorgente dell’unità della nostra vita e del suo stile proprio ed apprenderne di nuovo e meglio le caratteristiche dall’esempio di San Giuseppe.
Nel brano di Lc 2,41-52, che certamente ha una valenza cristologica e teologica più ampia ed un significato più profondo di quello di cui noi ci serviamo come icona “educativa” per il nostro prossimo capitolo generale, c’è un dialogo in due battute, nel quale si usa due volte la stessa parola - Padre - con un senso diverso.
Maria, rivolgendosi a Gesù, gli dice: “Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”; Gesù risponde “ Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Maria parla a Gesù del suo padre, che sta lì con lei, che è Giuseppe.
Gesù, invece, si riferisce, a un altro Padre, il suo Padre celeste.
È un dialogo misterioso e rivelativo, allo stesso tempo.
Gesù dodicenne mostra di conoscere la sua identità di Figlio di Dio, una cosa sola con il Padre: al Padre Egli obbedisce e ne è attratto irresistibilmente.
Rivela in quel momento la sua identità a Giuseppe e a Maria, presumendo in loro una consapevolezza (“non sapevate”) che invece è tutta la raggiungere dentro un cammino di fede.
Il momento dunque è intensissimo e profondo; pieno di fascino e di mistero circa l’identità di Gesù come Figlio di Dio e circa la sua identità di uomo, di ragazzo, che sta imparando a conoscere il cuore delle persone.
Consentitemi però di provare a raccontare e a pensare questo momento dal punto di vista di quel padre, Giuseppe, che sta dedicando la sua vita, con passione e sacrificio a Gesù come a suo figlio e lo sente ora riferirsi ad un’altra paternità, ben più grande.
È una paternità che Giuseppe aveva accettato sin dall’inizio, facendo luogo nel suo cuore e nel cammino della sua fede di uomo giusto, alla verità delle parole dell’angelo, ma continuando, io credo, per tutta la vita, a cercare luce, dentro la profondità di questo mistero.
Ecco, proprio qui, in questo impegno e in questa fatica, mi pare di sentire che San Giuseppe è il nostro modello di educatori di ragazzi e di giovani ai quali siamo chiamati a dare la nostra vita, con piena generosità, rispettando fino in fondo il loro “mistero”, cercandoli con amore sulle loro strade e accettando anche di essere sconfitti, per non sapere, per non aver saputo o capito fino in fondo della loro vera strada.
Qui è il sogno e l’impegno più grande di ogni padre e di ogni educatore cristiano: che un figlio prenda in mano la propria vita e ne riconosca il senso nel riconoscimento della sua vocazione fondamentale: essere figli del Padre.
Giuseppe, il padre, non dice una parola.
Anche lui, come Maria, continua a narrare il Vangelo di Luca, non comprende del tutto in quel momento a quale nebbioso e lontano orizzonte vogliano portarlo le parole del figlio.
Ma certo lo fa sussultare quell’espressione che sembra direttamente chiamarlo in causa: “… le cose del Padre mio”.
Quale padre?
Mi immagino quasi che Giuseppe non stia neppure a fianco della madre, forse è un po’ più indietro, alle sue spalle, ma il suo sguardo scruta profondamente quel ragazzo dodicenne che afferma un’autonomia che fa parte di un mistero insondabile, che accomuna tutti e tre.
Nel suo cuore, Giuseppe ripercorre i dodici anni, da quando quel figlio, al primo impatto gli è entrato nella vita come una spina che non poteva levare, tanto gli era penetrata dentro.
“No! - potrebbe rispondere - non sono stato io a cercare te; sei tu che sei venuto a cercare me e hai buttato per aria tutti i miei progetti e miei sogni. Chi ti ha mandato?”.
Ma… è Giuseppe, l’uomo del silenzio, che seppellisce i suoi turbamenti dentro una parola forte e sicura che ha ascoltato dall’angelo: “Non temere”.
L’aveva sentita e la viveva per sé come una forza, quella parola che aveva percorso tutta la storia del suo popolo e che risuonava nei libri sacri: “Non temere, Abramo”, “Non temere, Mosè”, “Non temere, Geremia”, “Non temere, popolo mio”.
Anche a Maria l’angelo l’aveva detta la parola forte e luminosa: “Non temere”.
Su questa parola, nella fede, Giuseppe costruisce ogni giorno la sua avventura e la sua responsabilità di padre - padre davvero !- di Gesù, che ha un altro Padre.
Giuseppe fu “padre davvero” di Gesù: con semplicità ed immediatezza nel Vangelo Gesù è chiamato e conosciuto come "figlio di Giuseppe".
Delle qualità di padre e di educatore di Giuseppe nulla noi sappiamo.
Conosciamo abbastanza bene, però, dal Vangelo, il figlio che lui ha cresciuto.
E forse non è troppo azzardato, soprattutto per noi, che amiamo San Giuseppe e vogliamo immergersi nella sua spiritualità di umiltà e di silenzio, pensare che il silenzio di Giuseppe troverà l’eco più nitida proprio nelle parole audaci e liberanti di Gesù: “ Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, gli uomini di pace, i perseguitati”.
Come non vedere in quelle parole il ritratto di chi lo aveva accolto, difeso, fatto crescere, amato e, in fondo, reso felice nella vita?
E ancora: “Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”…
Di chi parlava Gesù se non anzitutto di quell’”Abbà” terreno, di cui aveva sentito battere il cuore quando lo sollevava al suo petto e gli insegnava ad esultare nello spirito per l’Abbà del cielo, fonte del suo mistero?
P. Giuseppe Danieli, quasi a conclusione del suo libro “Incontrare San Giuseppe”, ci regala al riguardo una considerazione bellissima: “La Parola di Dio non ha conservato nessuna frase di lui (San Giuseppe). Ma se noi nella preghiera gustiamo talvolta la felicità di appartenere all’Eterno come figli, nonostante la nostra indegnità e se, commossi per la grandezza di questo amore, lo invochiamo anche noi, come faceva Gesù, “Abbà”, “Papà”, “Babbo”, allora sarà giusto, io penso, esprimere qualche ringraziamento a Giuseppe. Perché in quel modo di parlare a Dio, viviamo un atteggiamento di fede che ci viene da Gesù, ma che per Gesù ebbe inizio proprio da Giuseppe: da come lo amò, lo educò e lo fece crescere davanti a Dio e davanti agli uomini”.
Cari confratelli queste riflessioni sulla paternità di San Giuseppe nei confronti di Gesù credo che ci aiutino a capire più a fondo il senso del “patrocinio” e del “modello” che il nostro Fondatore ha voluto dare a noi suoi figli, educatori dei ragazzi e dei giovani e anche ad approfondire il significato essenziale di quel “per avere Vita in Cristo”, contenuto nel tema del prossimo capitolo generale, che è il senso del nostro servizio educativo.
La nostra tradizione è ricca e chiara su questo punto.
Riporto, al riguardo, un brano di uno studio riferito a San Giuseppe educatore.
Il Regolamento 1873 scrive che i confratelli «ameranno i giovani con tutto il loro cuore ed avranno per essi un profondo rispetto... considerando in essi le membra stesse di Gesù» (n. 183), anzi, dice il Murialdo, «altrettanti piccoli Gesù» (Scritti, VI, p. 7).
Il Direttorio 1936 sottolinea che l’amore del giuseppino verso i giovani deve essere «tenero e forte» (art. 386), «puro e sincero» (art. 387); un amore che li porta «a molto compatire e a molto perdonare» (art. 381).
L’art. 5 delle Costituzioni dice che per vocazione specifica i giuseppini devono «continuare nella Chiesa... la... missione» di san Giuseppe che è quella di educatore.
È un aspetto questo presentato in modo particolare dalla nostra tradizione e che viene richiamato nell'art. 50 delle Costituzioni: «Ispirandosi a san Giuseppe educatore di Gesù, i confratelli amano vivere tra i giovani...».
Lo spirito di questa missione è ben delineato in un testo della Spiegazione del Ristretto: «... come... a Nazareth alla persona stessa di Gesù Cristo si ha come maestro la persona stessa di S. Giuseppe; così qui da noi, ai rappresentanti di Gesù è conveniente preporre ad educatori i rappresentanti di S. Giuseppe che siamo noi, suoi servi, amici e figli» (p. 58).
È bello e significativo questo rapporto, così evangelico, tra Giuseppe-giuseppini e Gesù-giovani nei quali dobbiamo vedere di «educare lo stesso Gesù Cristo fanciullo» (Dir. 1936, n. 379).
Ricordiamo la parola del Signore: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18,5).
San Giuseppe, definito dalla nostra tradizione «educatore ottimo» (Dir. 1936, art. 367), è il modello del nostro essere educatori.
Nell’art. 370 del Direttorio del 1936 troviamo un bella spiegazione del modo con cui Giuseppe visse la sua paternità: «San Giuseppe ebbe per Gesù una profondissima riverenza ed un amore purissimo e santissimo; visse tutto per Gesù; e con la massima sollecitudine per lui non cessò mai di lavorare, faticare e soffrire; egli, riputandosi indegnissimo del suo alto ministero, governava Gesù con mirabile sapienza, mansuetudine e dolcezza...».
Allora, proprio da san Giuseppe, «dobbiamo studiare quella sublimissima pedagogia che non si trova nei libri profani, e che si compendia tutta nella carità ardente di Gesù Cristo, per la quale sola, ad esempio di S. Giuseppe, dobbiamo pensare, parlare ed operare» (Dir. 1936, n. 20). (Don Pino Fossati)
Giuseppe ha cresciuto il Figlio Gesù facendo crescere in lui, nella sua coscienza di uomo, la dimensione della “filialità” che Egli, come Figlio di Dio, aveva manifestato chiaramente quando era dodicenne. In fondo questa è l’essenza della buona notizia che Gesù ci ha portato: abbiamo un Dio che ci è Padre.
Credo che porre l’ “avere Vita in Cristo” come senso del nostro servizio educativo significhi vedere nei nostri ragazzi e giovani quei figli di Dio che essi sono, dare la vita perché essi vivano nella dignità e nella grazia dei figli di Dio, manifestare con la nostra stessa vita e testimonianza che cosa vuol dire vivere da figli di Dio.
L’importanza fondamentale per noi della figura di San Giuseppe ci rinnovi nell’impegno a confrontarci sempre più come educatori con questo modello di “educatore ottimo”, di padre totalmente dedicato alla vita del “figlio”, nel rispetto della sua libertà e con tanto, tantissimo amore.
Ogni riferimento a san Giuseppe, infine, per spogliarlo di ogni insipido spiritualismo, dovrebbe passare per i calli delle sue mani. Insomma dovremmo prendere nelle nostre mani le sue mani o meglio che san Giuseppe prenda nelle sue le nostre mani e che ci guardiamo negli occhi.
Forse da questo sguardo e da questo contatto fisico avremo tante cose da imparare sulla sua e sulla nostra paternità.
Nel brano di Lc 2,41-52, che certamente ha una valenza cristologica e teologica più ampia ed un significato più profondo di quello di cui noi ci serviamo come icona “educativa” per il nostro prossimo capitolo generale, c’è un dialogo in due battute, nel quale si usa due volte la stessa parola - Padre - con un senso diverso.
Maria, rivolgendosi a Gesù, gli dice: “Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”; Gesù risponde “ Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Maria parla a Gesù del suo padre, che sta lì con lei, che è Giuseppe.
Gesù, invece, si riferisce, a un altro Padre, il suo Padre celeste.
È un dialogo misterioso e rivelativo, allo stesso tempo.
Gesù dodicenne mostra di conoscere la sua identità di Figlio di Dio, una cosa sola con il Padre: al Padre Egli obbedisce e ne è attratto irresistibilmente.
Rivela in quel momento la sua identità a Giuseppe e a Maria, presumendo in loro una consapevolezza (“non sapevate”) che invece è tutta la raggiungere dentro un cammino di fede.
Il momento dunque è intensissimo e profondo; pieno di fascino e di mistero circa l’identità di Gesù come Figlio di Dio e circa la sua identità di uomo, di ragazzo, che sta imparando a conoscere il cuore delle persone.
Consentitemi però di provare a raccontare e a pensare questo momento dal punto di vista di quel padre, Giuseppe, che sta dedicando la sua vita, con passione e sacrificio a Gesù come a suo figlio e lo sente ora riferirsi ad un’altra paternità, ben più grande.
È una paternità che Giuseppe aveva accettato sin dall’inizio, facendo luogo nel suo cuore e nel cammino della sua fede di uomo giusto, alla verità delle parole dell’angelo, ma continuando, io credo, per tutta la vita, a cercare luce, dentro la profondità di questo mistero.
Ecco, proprio qui, in questo impegno e in questa fatica, mi pare di sentire che San Giuseppe è il nostro modello di educatori di ragazzi e di giovani ai quali siamo chiamati a dare la nostra vita, con piena generosità, rispettando fino in fondo il loro “mistero”, cercandoli con amore sulle loro strade e accettando anche di essere sconfitti, per non sapere, per non aver saputo o capito fino in fondo della loro vera strada.
Qui è il sogno e l’impegno più grande di ogni padre e di ogni educatore cristiano: che un figlio prenda in mano la propria vita e ne riconosca il senso nel riconoscimento della sua vocazione fondamentale: essere figli del Padre.
Giuseppe, il padre, non dice una parola.
Anche lui, come Maria, continua a narrare il Vangelo di Luca, non comprende del tutto in quel momento a quale nebbioso e lontano orizzonte vogliano portarlo le parole del figlio.
Ma certo lo fa sussultare quell’espressione che sembra direttamente chiamarlo in causa: “… le cose del Padre mio”.
Quale padre?
Mi immagino quasi che Giuseppe non stia neppure a fianco della madre, forse è un po’ più indietro, alle sue spalle, ma il suo sguardo scruta profondamente quel ragazzo dodicenne che afferma un’autonomia che fa parte di un mistero insondabile, che accomuna tutti e tre.
Nel suo cuore, Giuseppe ripercorre i dodici anni, da quando quel figlio, al primo impatto gli è entrato nella vita come una spina che non poteva levare, tanto gli era penetrata dentro.
“No! - potrebbe rispondere - non sono stato io a cercare te; sei tu che sei venuto a cercare me e hai buttato per aria tutti i miei progetti e miei sogni. Chi ti ha mandato?”.
Ma… è Giuseppe, l’uomo del silenzio, che seppellisce i suoi turbamenti dentro una parola forte e sicura che ha ascoltato dall’angelo: “Non temere”.
L’aveva sentita e la viveva per sé come una forza, quella parola che aveva percorso tutta la storia del suo popolo e che risuonava nei libri sacri: “Non temere, Abramo”, “Non temere, Mosè”, “Non temere, Geremia”, “Non temere, popolo mio”.
Anche a Maria l’angelo l’aveva detta la parola forte e luminosa: “Non temere”.
Su questa parola, nella fede, Giuseppe costruisce ogni giorno la sua avventura e la sua responsabilità di padre - padre davvero !- di Gesù, che ha un altro Padre.
Giuseppe fu “padre davvero” di Gesù: con semplicità ed immediatezza nel Vangelo Gesù è chiamato e conosciuto come "figlio di Giuseppe".
Delle qualità di padre e di educatore di Giuseppe nulla noi sappiamo.
Conosciamo abbastanza bene, però, dal Vangelo, il figlio che lui ha cresciuto.
E forse non è troppo azzardato, soprattutto per noi, che amiamo San Giuseppe e vogliamo immergersi nella sua spiritualità di umiltà e di silenzio, pensare che il silenzio di Giuseppe troverà l’eco più nitida proprio nelle parole audaci e liberanti di Gesù: “ Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, gli uomini di pace, i perseguitati”.
Come non vedere in quelle parole il ritratto di chi lo aveva accolto, difeso, fatto crescere, amato e, in fondo, reso felice nella vita?
E ancora: “Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”…
Di chi parlava Gesù se non anzitutto di quell’”Abbà” terreno, di cui aveva sentito battere il cuore quando lo sollevava al suo petto e gli insegnava ad esultare nello spirito per l’Abbà del cielo, fonte del suo mistero?
P. Giuseppe Danieli, quasi a conclusione del suo libro “Incontrare San Giuseppe”, ci regala al riguardo una considerazione bellissima: “La Parola di Dio non ha conservato nessuna frase di lui (San Giuseppe). Ma se noi nella preghiera gustiamo talvolta la felicità di appartenere all’Eterno come figli, nonostante la nostra indegnità e se, commossi per la grandezza di questo amore, lo invochiamo anche noi, come faceva Gesù, “Abbà”, “Papà”, “Babbo”, allora sarà giusto, io penso, esprimere qualche ringraziamento a Giuseppe. Perché in quel modo di parlare a Dio, viviamo un atteggiamento di fede che ci viene da Gesù, ma che per Gesù ebbe inizio proprio da Giuseppe: da come lo amò, lo educò e lo fece crescere davanti a Dio e davanti agli uomini”.
Cari confratelli queste riflessioni sulla paternità di San Giuseppe nei confronti di Gesù credo che ci aiutino a capire più a fondo il senso del “patrocinio” e del “modello” che il nostro Fondatore ha voluto dare a noi suoi figli, educatori dei ragazzi e dei giovani e anche ad approfondire il significato essenziale di quel “per avere Vita in Cristo”, contenuto nel tema del prossimo capitolo generale, che è il senso del nostro servizio educativo.
La nostra tradizione è ricca e chiara su questo punto.
Riporto, al riguardo, un brano di uno studio riferito a San Giuseppe educatore.
Il Regolamento 1873 scrive che i confratelli «ameranno i giovani con tutto il loro cuore ed avranno per essi un profondo rispetto... considerando in essi le membra stesse di Gesù» (n. 183), anzi, dice il Murialdo, «altrettanti piccoli Gesù» (Scritti, VI, p. 7).
Il Direttorio 1936 sottolinea che l’amore del giuseppino verso i giovani deve essere «tenero e forte» (art. 386), «puro e sincero» (art. 387); un amore che li porta «a molto compatire e a molto perdonare» (art. 381).
L’art. 5 delle Costituzioni dice che per vocazione specifica i giuseppini devono «continuare nella Chiesa... la... missione» di san Giuseppe che è quella di educatore.
È un aspetto questo presentato in modo particolare dalla nostra tradizione e che viene richiamato nell'art. 50 delle Costituzioni: «Ispirandosi a san Giuseppe educatore di Gesù, i confratelli amano vivere tra i giovani...».
Lo spirito di questa missione è ben delineato in un testo della Spiegazione del Ristretto: «... come... a Nazareth alla persona stessa di Gesù Cristo si ha come maestro la persona stessa di S. Giuseppe; così qui da noi, ai rappresentanti di Gesù è conveniente preporre ad educatori i rappresentanti di S. Giuseppe che siamo noi, suoi servi, amici e figli» (p. 58).
È bello e significativo questo rapporto, così evangelico, tra Giuseppe-giuseppini e Gesù-giovani nei quali dobbiamo vedere di «educare lo stesso Gesù Cristo fanciullo» (Dir. 1936, n. 379).
Ricordiamo la parola del Signore: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18,5).
San Giuseppe, definito dalla nostra tradizione «educatore ottimo» (Dir. 1936, art. 367), è il modello del nostro essere educatori.
Nell’art. 370 del Direttorio del 1936 troviamo un bella spiegazione del modo con cui Giuseppe visse la sua paternità: «San Giuseppe ebbe per Gesù una profondissima riverenza ed un amore purissimo e santissimo; visse tutto per Gesù; e con la massima sollecitudine per lui non cessò mai di lavorare, faticare e soffrire; egli, riputandosi indegnissimo del suo alto ministero, governava Gesù con mirabile sapienza, mansuetudine e dolcezza...».
Allora, proprio da san Giuseppe, «dobbiamo studiare quella sublimissima pedagogia che non si trova nei libri profani, e che si compendia tutta nella carità ardente di Gesù Cristo, per la quale sola, ad esempio di S. Giuseppe, dobbiamo pensare, parlare ed operare» (Dir. 1936, n. 20). (Don Pino Fossati)
Giuseppe ha cresciuto il Figlio Gesù facendo crescere in lui, nella sua coscienza di uomo, la dimensione della “filialità” che Egli, come Figlio di Dio, aveva manifestato chiaramente quando era dodicenne. In fondo questa è l’essenza della buona notizia che Gesù ci ha portato: abbiamo un Dio che ci è Padre.
Credo che porre l’ “avere Vita in Cristo” come senso del nostro servizio educativo significhi vedere nei nostri ragazzi e giovani quei figli di Dio che essi sono, dare la vita perché essi vivano nella dignità e nella grazia dei figli di Dio, manifestare con la nostra stessa vita e testimonianza che cosa vuol dire vivere da figli di Dio.
L’importanza fondamentale per noi della figura di San Giuseppe ci rinnovi nell’impegno a confrontarci sempre più come educatori con questo modello di “educatore ottimo”, di padre totalmente dedicato alla vita del “figlio”, nel rispetto della sua libertà e con tanto, tantissimo amore.
Ogni riferimento a san Giuseppe, infine, per spogliarlo di ogni insipido spiritualismo, dovrebbe passare per i calli delle sue mani. Insomma dovremmo prendere nelle nostre mani le sue mani o meglio che san Giuseppe prenda nelle sue le nostre mani e che ci guardiamo negli occhi.
Forse da questo sguardo e da questo contatto fisico avremo tante cose da imparare sulla sua e sulla nostra paternità.
p. Mario Aldegani
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