martedì, marzo 25, 2008

ABBA' PADRE!



Papà, abbà! E’ proprio questo il termine che Gesù ha usato sia nella sua preghiera che quando ci ha insegnato a pregare col “Padre nostro” che appunto dovrebbe essere meglio tradotto “Papà nostro”. Ci sorprende la familiarità e l’intimità di questa parola, ci sembra così eccessiva che pur sapendolo continuiamo a rivolgerci a Dio chiamandolo Padre piuttosto che Papà. La visione cristiana in effetti è rivoluzionaria: ci porta a scoprire nello stesso tempo l’identità di Dio e la nostra stessa identità. Superando tante idee di filosofie e religioni, qui siamo chiamati a capire essenzialmente chi è Dio e chi siamo noi. Dio è il Padre che ci ama immensamente, noi siamo i figli suoi infinitamente amati da Lui. Il carisma di san Leonardo Murialdo ci ha trasmesso la grandezza di questa realtà e ci ha condotto a intuire almeno un po’ – non senza gratitudine e stupore - le caratteristiche di questo amore di Dio, che è paterno e provvidente, gratuito ed infinito, attuale e personale, tenero e misericordioso. Alla ripresa dell’attività del nuovo anno, dopo l’estate, ci auguriamo che anche chi è lontano e non ha incontrato la vicinanza di questo amore di Dio, chi è forse nella paura di un Dio terribile che giudica e punisce, possa fare l’esperienza gioiosa della figliolanza nei suoi confronti e della fraternità nei riguardi del prossimo. Si tratta infatti di un rapporto da costruire con Lui e con gli altri.
Lo stesso termine “abbà” ha usato mille e mille volte Gesù nei confronti di Giuseppe. Certamente lo chiamava papà, tale era ritenuto dalla gente, tale lo considerava anche Maria. Ci ricordiamo come è Giuseppe, proprio in qualità di padre, che dà il nome a Gesù, che lo presenta al tempio, che lo difende dai pericoli, che lo porta alla sinagoga, che gli insegna a pregare e a lavorare, che lo educa e lo fa entrare da adulto nella comunità civile e religiosa. Riflettiamo sul fatto che Gesù per tanti anni è stato sottomesso ai “suoi genitori”. Pensiamo a Maria che, nel ritrovare Gesù dodicenne al tempio, rimprovera il figlio con dolcezza: “perché ci hai fatto questo? Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo!”. Sicuramente Giuseppe ha accolto Gesù come vero e proprio figlio, per quanto consapevole del dono singolare ricevuto dall’alto. Sicuramente Gesù si è rapportato con Giuseppe come al papà che il Cielo gli ha dato. C’è una speciale attrattiva che avvolge questo rapporto, come pure quello tra i due sposi, e rende unica al mondo quella Famiglia di Nazaret che vive comunemente tra gli uomini, ma che comune non è, dato che porta dentro Dio stesso. La famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria, modello di ogni famiglia, di ogni figlio, di ogni madre e di ogni padre: potremmo dire che nella loro casa - nella loro vita quotidiana umana e divina nello stesso tempo - troviamo “l’attrattiva del tempo moderno”.
Ci si è sforzati di definire la paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù. Certamente è una paternità autentica e reale, sebbene non fondata sulla generazione fisica. E’ chiaramente fondata piuttosto sulla volontà di Dio, sul libero riconoscimento del figlio da parte di Giuseppe, e soprattutto sul rapporto instauratosi tra padre e figlio in tanti anni di convivenza familiare, un intreccio di paternità e di figliolanza vissuto concretamente e alla luce del sole senza mezze misure. C’è chi ha chiamato Giuseppe padre putativo, verginale, davidico, nutrizio, legale, adottivo, chi l’ha indicato come custode e difensore. Ma è evidente che ogni definizione è imperfetta, dice qualcosa, ma non è esaustiva. Forse conviene recuperare la semplicità e la chiarezza del Vangelo, che senza mezzi termini lo presenta come padre. Gesù lo chiamava “abbà”, papà. Maria lo indicava come padre. Al massimo potremmo aggiungere che in san Giuseppe troviamo il “padre terreno” per distinguerlo dal “Padre celeste”, distinzione che Cristo stesso adopera poi nella sua vita pubblica. Se Gesù ha voluto essere chiamato “figlio di Giuseppe”, noi pure allora riconosciamolo come padre! Non andiamo a cercare aggettivi che alla fine non riescono a dare l’idea giusta di questa paternità che – proprio per il fatto di essere unica – non può essere definita.


Angelo Catapano