sabato, giugno 13, 2009

LA FAMIGLIA DI NAZARET


La spiritualità, che è la strada per la santità, è dono di Dio; dono che Egli fa ad ogni persona, donna o uomo, perché possa realizzare se stessa e compiere la 'missione' che Dio assegna a ciascuno per il bene di tutti.
Tante sono le sfaccettature della spiritualità giuseppina e murialdi­na; molti i valori morali e spirituali che la rendono un 'ca­risma'(= dono) per tutti i cristiani, che si sentono attratti da esso e che in esso trovano il senso dell'esistenza.
Si possono così enumerare: fede assoluta in Dio Amore misericordioso - abbandono filiale alle disposizioni della sua Provvidenza paterna - fiducia nella intercessione di Maria, che Gesù Cristo ci ha donato come madre - devozione eucaristi­ca, come radice, sostegno e modello di vita cristiana...
Ma, forse, si può trovare la sintesi, la ' icona' (= imma­gine viva) della nostra spiritualità nella Famiglia di Naza­ret. Là vissero insieme per trent'anni i personaggi più illu­stri, essenziali della vita cristiana: Gesù, Maria, Giuseppe.
E quale fu lo stile e la sostanza di quella loro esisten­za; sulla quale dobbiamo e possiamo modellare la nostra? La risposta ce la dà il vangelo (il buon annuncio, che dà senso e valore alla vita).

Maria fu la donna, semplice, aperta a Dio, desiderosa so­lo di capire e compiere la volontà di Dio. Ella è completamen­te disponibile; ma non fatalista: vuole capire che cosa l'an­gelo dell'annunciazione le comunica; perciò fa domande. Quando non comprende le parole o le azioni del Figlio; le ripone nel suo cuore, e vi riflette.
E ' ricca di femminilità : di sensibilità, di intuizione e di sollecitudine. Si mette di libera iniziativa in cammino per aiutare la cugina Elisabetta; si attiva per rendere meno disa­gevole la nascita del Figlio; 'fa lieta la sua casa di una limpida gioia' (come canta la liturgia); intuisce i diversi stati d'animo dello sposo e accorre e soccorre con delicatezza e tenerezza femminile, sponsale...
E' la madre; che rispetta il segreto del Figlio e la sua missione universale di salvezza, pur non comprendendo sempre né appieno; ma gli sta accanto nei momenti difficili della vi­ta, fino alla crocifissione, e poi sta maternamente accanto ai suoi discepoli nei primi anni della vita della Chiesa, perché questo le ha chiesto il Figlio...

Giuseppe fu, ed è per sempre nella storia della redenzio­ne, l'uomo 'giusto', che visse nell'adesione personale alla volontà di Dio e nell' osservanza delle leggi del suo popolo:
il popolo dell'Alleanza. L'uomo che era ben consapevole dei propri limiti e della pochezza del suo essere, per questo ha bi­sogno che Dio gli faccia sapere che proprio lui è chiamato ad essere lo sposo della madre di Dio e capo di quella nuova, i­nedita Famiglia.
E’ l’uomo che si assume le sue responsabilità e le affronta con tutta l’energia e le capacità della sua personalità: nella decisione di far nascere Gesù a Betlemme, nella fuga in Egitto e nel ritorno a Nazaret.
E' l'uomo che svolge davvero, con intelletto e cuore di padre, il suo ruolo di educatore del Figlio. Mentre Maria insegna a Gesù a mangiare, a camminare, a tenersi pulito, a parlare; Giuseppe gli insegna a conoscere la storia del suo popolo, a pregare, a lavorare, a capire e amare la gente del suo villaggio...
E' l'uomo che sta accanto a Maria con cuore di sposo: l'accompagna nel suo andare a Betlemme; cerca di alleggerirne i disagi in occasione della nascita di Gesù; la protegge e le dà sicurezza nel tempo dell' esilio e poi durante tutta la permanenza a Nazaret.
E non dimentica mai che egli è a servizio di Gesù e di sua madre, come gli ha fatto intendere Simeone; che è a capo di una famiglia nella quale il centro è il Figlio; che il com­pito più importante spetta alla madre. Sa, e accetta con ri­spetto religioso e riconoscenza, con amore pienamente umano e spirituale, di essere sempre e solo il ' servo di Jahvé'. E quando non serve più, sparisce dalla scena, lasciandola totalmente al Figlio.

Gesù in questa famiglia, per tutto il tempo - lungo una trentina d'anni - è 'soggetto ad essi', sia per le necessità fisiche e materiali, sia per l'educazione civile e religiosa, sia per il lavoro e le relazioni sociali, Ma è sempre anzitut­to fedele al Padre, perché sa di essere stato da Lui 'mandato per fare la sua volontà'.
Per questo si ferma a Gerusalemme all'insaputa dei suoi; per questo afferma pubblicamente: "Mia madre, i miei fratelli e sorelle sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la met­tono in pratica". Egli ama soprattutto il Padre e proprio per questo ama i suoi genitori; e ama tutte le persone, e tiene sempre aperto lo sguardo, il cuore per mettersi a disposizione di ognuno, specialmente dei più deboli e poveri e bisognosi di comprensione e di aiuto. E' fedele fino alla morte alla voca­zione e missione che gli è stata affidata dal Padre.


Aldo Marengo

martedì, giugno 02, 2009

SAN GIUSEPPE LAVORATORE



Nel 1955 il papa Pio XII fissa al primo maggio la festa di san Giuseppe artigiano, come patrono degli operai e di tutti i lavoratori. Oggi per la liturgia è solo memoria facoltativa. Invece è un’ottima occasione per richiamare il senso cristiano del lavoro e guardare al nostro santo.
Pensando alla vita di san Giuseppe, per la maggior parte dei suoi anni lo troviamo nella bottega di Nazaret impegnato nel lavoro quotidiano, senza tirarsi indietro davanti alla fatica. Con le sue mani e con il sudore della fronte, facendo il carpentiere, sostiene la propria famiglia e procura alla sposa e al figlio il necessario per vivere. Va incontro ai bisogni della gente, che in paese e fuori lo chiama per le sue necessità… c’è da costruire, da aggiustare, da incollare, da riparare… Non lavora per arricchirsi, magari disonestamente e a scapito degli sprovveduti, ma è contento della sua povertà. E’ risaputo che Gesù, passando gli anni e diventando un ragazzo, impara nella bottega il mestiere del padre, tant’è che più tardi la gente, vedendo le sue opere, si domanderà: “non è il figlio del carpentiere?”, e più direttamente: “non è costui il carpentiere?”. Vanno insieme a raccogliere la legna, si passano gli arnesi, si aiutano nei lavori pesanti, spazzano e risistemano la bottega, si danno una mano in ogni cosa…
Giuseppe ci si presenta come il modello dei lavoratori. Tanto alto e grande è il compito affidatogli da Dio quanto umile e nascosta è la sua esistenza. Non gli piace farsi sentire e accampar diritti, ma darsi da fare in silenzio e semplicità. Non ambisce successi e non si affanna per i beni del mondo, ma è felice dell’essenziale. “Santifica e nobilita il suo lavoro continuamente indirizzandolo a Dio”. Davvero lavoratore perfetto: “egli che sostentò la sua e la vita di Gesù e di Maria col lavoro delle proprie mani; egli che seppe rimanersene oscuro l’intera vita in una bottega, nell’esercizio di virtù tanto più sublimi quanto più ignorate dagli uomini; egli che nell’arte sua istruì il Creatore del mondo, fatto per amor nostro umile artigianello sotto la disciplina del fabbro di Nazaret”. Giuseppe ci insegna dunque l’amore al lavoro, la sua importanza nel contesto della dignità umana e del progetto divino della creazione. Se ne ricava uno spirito di laboriosità, una coscienza della professione, una fedeltà al dovere, un’attenzione al momento presente da vivere in pienezza. Ben a ragione allora si è dedicata al nostro santo la festa dei lavoratori il primo maggio.
Il lavoro più delicato per Giuseppe rimane però non quello del mestiere, ma quello dell’educatore. Impresa certo non facile e che lo caratterizza più intimamente: è artigiano ed è esempio dei lavoratori, ma è principalmente “custode del redentore” (come lo definisce Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostolica) e modello degli educatori. A ben guardare proprio nella bottega di Nazaret troviamo l’ispirazione profonda dell’arte educativa. Indubbiamente i padri di famiglia vi si possono rispecchiare, ma anche gli insegnanti e gli istruttori, i responsabili dell’infanzia e dell’adolescenza. Anzi proprio chi non è legato da parentela con l’educando trova in Giuseppe un riferimento assai significativo. Da lui i genitori possono imparare il giusto esercizio di quella paternità a cui nella nostra società spesso si sfugge. A lui possono rifarsi tutti coloro che sono impegnati nel mondo dell’educazione e dell’accoglienza dei minori. Non è fuori luogo affermare che qui si trova il paradigma ideale sia della famiglia che dell’adozione e dell’affido, come pure del compito educativo nel senso più ampio del termine. Si direbbe che c’è da operare una doppia identificazione: noi in Giuseppe e i figli in Gesù. Diciamo pure che agli educatori spetta di fare la parte di Giuseppe e di riconoscere Gesù in coloro che sono affidati alle loro cure. Non a torto il nostro santo viene quindi invocato come “ottimo educatore”.


Angelo Catapano