sabato, marzo 17, 2012

PADRE DAVVERO



Quest’anno in occasione della festa di San Giuseppe, nostro patrono e nostro modello, a pochi mesi ormai dal Capitolo Generale XXII, vorrei condividere con voi qualche riflessione riferendomi, ancora una volta, all’icona evangelica - amata, discussa, celebrata, criticata… bella, dunque, nella sua complessità -, che esprime il tema del prossimo capitolo: riscoprire nel nostro essere educatori cristiani dei giovani il cuore del nostro carisma, la sorgente dell’unità della nostra vita e del suo stile proprio ed apprenderne di nuovo e meglio le caratteristiche dall’esempio di San Giuseppe.
Nel brano di Lc 2,41-52, che certamente ha una valenza cristologica e teologica più ampia ed un significato più profondo di quello di cui noi ci serviamo come icona “educativa” per il nostro prossimo capitolo generale, c’è un dialogo in due battute, nel quale si usa due volte la stessa parola - Padre - con un senso diverso.
Maria, rivolgendosi a Gesù, gli dice: “Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo”; Gesù risponde “ Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
Maria parla a Gesù del suo padre, che sta lì con lei, che è Giuseppe.
Gesù, invece, si riferisce, a un altro Padre, il suo Padre celeste.
È un dialogo misterioso e rivelativo, allo stesso tempo.
Gesù dodicenne mostra di conoscere la sua identità di Figlio di Dio, una cosa sola con il Padre: al Padre Egli obbedisce e ne è attratto irresistibilmente.
Rivela in quel momento la sua identità a Giuseppe e a Maria, presumendo in loro una consapevolezza (“non sapevate”) che invece è tutta la raggiungere dentro un cammino di fede.
Il momento dunque è intensissimo e profondo; pieno di fascino e di mistero circa l’identità di Gesù come Figlio di Dio e circa la sua identità di uomo, di ragazzo, che sta imparando a conoscere il cuore delle persone.
Consentitemi però di provare a raccontare e a pensare questo momento dal punto di vista di quel padre, Giuseppe, che sta dedicando la sua vita, con passione e sacrificio a Gesù come a suo figlio e lo sente ora riferirsi ad un’altra paternità, ben più grande.
È una paternità che Giuseppe aveva accettato sin dall’inizio, facendo luogo nel suo cuore e nel cammino della sua fede di uomo giusto, alla verità delle parole dell’angelo, ma continuando, io credo, per tutta la vita, a cercare luce, dentro la profondità di questo mistero.
Ecco, proprio qui, in questo impegno e in questa fatica, mi pare di sentire che San Giuseppe è il nostro modello di educatori di ragazzi e di giovani ai quali siamo chiamati a dare la nostra vita, con piena generosità, rispettando fino in fondo il loro “mistero”, cercandoli con amore sulle loro strade e accettando anche di essere sconfitti, per non sapere, per non aver saputo o capito fino in fondo della loro vera strada.
Qui è il sogno e l’impegno più grande di ogni padre e di ogni educatore cristiano: che un figlio prenda in mano la propria vita e ne riconosca il senso nel riconoscimento della sua vocazione fondamentale: essere figli del Padre.
Giuseppe, il padre, non dice una parola.
Anche lui, come Maria, continua a narrare il Vangelo di Luca, non comprende del tutto in quel momento a quale nebbioso e lontano orizzonte vogliano portarlo le parole del figlio.
Ma certo lo fa sussultare quell’espressione che sembra direttamente chiamarlo in causa: “… le cose del Padre mio”.
Quale padre?
Mi immagino quasi che Giuseppe non stia neppure a fianco della madre, forse è un po’ più indietro, alle sue spalle, ma il suo sguardo scruta profondamente quel ragazzo dodicenne che afferma un’autonomia che fa parte di un mistero insondabile, che accomuna tutti e tre.
Nel suo cuore, Giuseppe ripercorre i dodici anni, da quando quel figlio, al primo impatto gli è entrato nella vita come una spina che non poteva levare, tanto gli era penetrata dentro.
“No! - potrebbe rispondere - non sono stato io a cercare te; sei tu che sei venuto a cercare me e hai buttato per aria tutti i miei progetti e miei sogni. Chi ti ha mandato?”.
Ma… è Giuseppe, l’uomo del silenzio, che seppellisce i suoi turbamenti dentro una parola forte e sicura che ha ascoltato dall’angelo: “Non temere”.
L’aveva sentita e la viveva per sé come una forza, quella parola che aveva percorso tutta la storia del suo popolo e che risuonava nei libri sacri: “Non temere, Abramo”, “Non temere, Mosè”, “Non temere, Geremia”, “Non temere, popolo mio”.
Anche a Maria l’angelo l’aveva detta la parola forte e luminosa: “Non temere”.
Su questa parola, nella fede, Giuseppe costruisce ogni giorno la sua avventura e la sua responsabilità di padre - padre davvero !- di Gesù, che ha un altro Padre.
Giuseppe fu “padre davvero” di Gesù: con semplicità ed immediatezza nel Vangelo Gesù è chiamato e conosciuto come "figlio di Giuseppe".
Delle qualità di padre e di educatore di Giuseppe nulla noi sappiamo.
Conosciamo abbastanza bene, però, dal Vangelo, il figlio che lui ha cresciuto.
E forse non è troppo azzardato, soprattutto per noi, che amiamo San Giuseppe e vogliamo immergersi nella sua spiritualità di umiltà e di silenzio, pensare che il silenzio di Giuseppe troverà l’eco più nitida proprio nelle parole audaci e liberanti di Gesù: “ Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, gli uomini di pace, i perseguitati”.
Come non vedere in quelle parole il ritratto di chi lo aveva accolto, difeso, fatto crescere, amato e, in fondo, reso felice nella vita?
E ancora: “Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”…
Di chi parlava Gesù se non anzitutto di quell’”Abbà” terreno, di cui aveva sentito battere il cuore quando lo sollevava al suo petto e gli insegnava ad esultare nello spirito per l’Abbà del cielo, fonte del suo mistero?
P. Giuseppe Danieli, quasi a conclusione del suo libro “Incontrare San Giuseppe”, ci regala al riguardo una considerazione bellissima: “La Parola di Dio non ha conservato nessuna frase di lui (San Giuseppe). Ma se noi nella preghiera gustiamo talvolta la felicità di appartenere all’Eterno come figli, nonostante la nostra indegnità e se, commossi per la grandezza di questo amore, lo invochiamo anche noi, come faceva Gesù, “Abbà”, “Papà”, “Babbo”, allora sarà giusto, io penso, esprimere qualche ringraziamento a Giuseppe. Perché in quel modo di parlare a Dio, viviamo un atteggiamento di fede che ci viene da Gesù, ma che per Gesù ebbe inizio proprio da Giuseppe: da come lo amò, lo educò e lo fece crescere davanti a Dio e davanti agli uomini”.

Cari confratelli queste riflessioni sulla paternità di San Giuseppe nei confronti di Gesù credo che ci aiutino a capire più a fondo il senso del “patrocinio” e del “modello” che il nostro Fondatore ha voluto dare a noi suoi figli, educatori dei ragazzi e dei giovani e anche ad approfondire il significato essenziale di quel “per avere Vita in Cristo”, contenuto nel tema del prossimo capitolo generale, che è il senso del nostro servizio educativo.
La nostra tradizione è ricca e chiara su questo punto.
Riporto, al riguardo, un brano di uno studio riferito a San Giuseppe educatore.
Il Regolamento 1873 scrive che i confratelli «ameranno i giovani con tutto il loro cuore ed avranno per essi un profondo rispetto... considerando in essi le membra stesse di Gesù» (n. 183), anzi, dice il Murialdo, «altrettanti piccoli Gesù» (Scritti, VI, p. 7).
Il Direttorio 1936 sottolinea che l’amore del giuseppino verso i giovani deve essere «tenero e forte» (art. 386), «puro e sincero» (art. 387); un amore che li porta «a molto compatire e a molto perdonare» (art. 381).
L’art. 5 delle Costituzioni dice che per vocazione specifica i giuseppini devono «continuare nella Chiesa... la... missione» di san Giuseppe che è quella di educatore.
È un aspetto questo presentato in modo particolare dalla nostra tradizione e che viene richiamato nell'art. 50 delle Costituzioni: «Ispirandosi a san Giuseppe educatore di Gesù, i confratelli amano vivere tra i giovani...».
Lo spirito di questa missione è ben delineato in un testo della Spiegazione del Ristretto: «... come... a Nazareth alla persona stessa di Gesù Cristo si ha come maestro la persona stessa di S. Giuseppe; così qui da noi, ai rappresentanti di Gesù è conveniente preporre ad educatori i rappresentanti di S. Giuseppe che siamo noi, suoi servi, amici e figli» (p. 58).
È bello e significativo questo rapporto, così evangelico, tra Giuseppe-giuseppini e Gesù-giovani nei quali dobbiamo vedere di «educare lo stesso Gesù Cristo fanciullo» (Dir. 1936, n. 379).
Ricordiamo la parola del Signore: «Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me» (Mt 18,5).
San Giuseppe, definito dalla nostra tradizione «educatore ottimo» (Dir. 1936, art. 367), è il modello del nostro essere educatori.
Nell’art. 370 del Direttorio del 1936 troviamo un bella spiegazione del modo con cui Giuseppe visse la sua paternità: «San Giuseppe ebbe per Gesù una profondissima riverenza ed un amore purissimo e santissimo; visse tutto per Gesù; e con la massima sollecitudine per lui non cessò mai di lavorare, faticare e soffrire; egli, riputandosi indegnissimo del suo alto ministero, governava Gesù con mirabile sapienza, mansuetudine e dolcezza...».
Allora, proprio da san Giuseppe, «dobbiamo studiare quella sublimissima pedagogia che non si trova nei libri profani, e che si compendia tutta nella carità ardente di Gesù Cristo, per la quale sola, ad esempio di S. Giuseppe, dobbiamo pensare, parlare ed operare» (Dir. 1936, n. 20). (Don Pino Fossati)

Giuseppe ha cresciuto il Figlio Gesù facendo crescere in lui, nella sua coscienza di uomo, la dimensione della “filialità” che Egli, come Figlio di Dio, aveva manifestato chiaramente quando era dodicenne. In fondo questa è l’essenza della buona notizia che Gesù ci ha portato: abbiamo un Dio che ci è Padre.
Credo che porre l’ “avere Vita in Cristo” come senso del nostro servizio educativo significhi vedere nei nostri ragazzi e giovani quei figli di Dio che essi sono, dare la vita perché essi vivano nella dignità e nella grazia dei figli di Dio, manifestare con la nostra stessa vita e testimonianza che cosa vuol dire vivere da figli di Dio.

L’importanza fondamentale per noi della figura di San Giuseppe ci rinnovi nell’impegno a confrontarci sempre più come educatori con questo modello di “educatore ottimo”, di padre totalmente dedicato alla vita del “figlio”, nel rispetto della sua libertà e con tanto, tantissimo amore.
Ogni riferimento a san Giuseppe, infine, per spogliarlo di ogni insipido spiritualismo, dovrebbe passare per i calli delle sue mani. Insomma dovremmo prendere nelle nostre mani le sue mani o meglio che san Giuseppe prenda nelle sue le nostre mani e che ci guardiamo negli occhi.
Forse da questo sguardo e da questo contatto fisico avremo tante cose da imparare sulla sua e sulla nostra paternità.






p. Mario Aldegani

sabato, marzo 03, 2012

La vicenda umana e divina del santo falegname



L'Angelo che convinse San Giuseppe a sposare Maria
di don Marcello Stanzione






Nella vita di Gesù all’angelo dell’annunciazione segue l’angelo che possiamo definire come ammonitore. Nel vangelo questo angelo non si presenta con un nome specifico ma presumibilmente si tratta sempre dello stesso Gabriele. In ogni vita umana infatti non basta annunciare ciò che deve accadere, ma è indispensabile controllare e sorvegliare l’esecuzione di ciò che è stato annunziato. L’angelo dell’annunciazione porta il messaggio di Dio al sacerdote Zaccaria, alla vergine Maria e ai pastori.
L’angelo ammonitore si presenta a Giuseppe cui, come padre legale, è stata affidata la protezione della vita più preziosa, circondata per questo da agguati e da pericoli sin dall’infanzia Leggendo le prime pagine del Nuovo Testamento si comprendono meglio le ultime pagine dell’apocalisse: “Il drago perseguitò la donna, che aveva dato alla luce il maschio. Alla donna allora furono date un paio di ali della grande aquila per fuggire nel deserto” (Ap. 12,13ss). “La donna”, cioè Maria, ebbe accanto contro le lotte e le afflizioni della vita, il fedele Giuseppe. Ma anche Giuseppe non può gareggiare con il drago cioè con il demonio, perciò con Maria e col bambino viene preso sotto “le ali della grande aquila”, cioè sotto la guida dell’angelo ammonitore che si presentò quattro volte a san Giuseppe durante l’infanzia di Gesù.
La Maestà divina permise che la Santa Vergine ed il suo Santo Sposo provassero la pena interiore del dubbio, affinché oltre i meriti ch'essi acquistavano con un sì lungo martirio, il merito della consolazione divina fosse, in essi, e più ammirabile e più singolare. Maria praticò molte virtù in quello stato, di modo che Ella ci insegnò a sperare nel rimedio dell'Altissimo, nelle più grandi afflizioni. E quale esempio in San Giuseppe! Perché nessuno mai ebbe più grandi soggetti di sospetti, né più discrezione nel sospendere il giudizio quanto lui. Il dolore della gelosia produce delle fitte sensibili in colui che ne é attinto, e nessuno ne risentì così sensibilmente gli effetti come lui, benché, in verità, egli non ne sarebbe stato soggetto se solo ne avesse conosciuto 1a vera causa. Egli era arricchito da una scienza e da una luce singolare per penetrare la santità e le belle qualità della sua Sposa. Ma, aumentandogli la stima per quella ch'egli stava per perdere, il dolore di vedersi nella necessità di abbandonarla era aumentato.
L'Altissimo inviò allora il santo angelo, affinché scoprisse, con una divina rivelazione, a San Giuseppe, che dormiva, il Mistero che si era compiuto nella sua sposa. Accingendosi a questa ambasciata, l'Arcangelo apparve, in sogno, al Santo e gli dichiarò, nei termini riportati da San Matteo, tutto il Mistero dell'Incarnazione e della Redenzione. Vi sono anche altre ragioni del perché l'angelo parlò a San Giuseppe in un sogno, e non mentre vegliava, benché questo mistero sia stato manifestato ad altri in stato di veglia.
La prima, è che San Giuseppe era così prudente e così pieno di stima per la Santissima Vergine, che non fu necessario persuaderlo con dei mezzi più forti, per convincerlo della dignità di Maria e del Mistero dell'Incarnazione: perché le ispirazioni divine penetrano più facilmente nei cuori ben disposti.
La seconda, è che il suo turbamento era cominciato dai sensi, ed era giusto, per ciò, che fossero come mortificati e privati della visione angelica, poiché avevano dato l'accesso all'imbroglio od al sospetto: la verità non doveva essere introdotta dal loro organo.
La terza, è che benché San Giuseppe non commettesse alcun peccato in queste circostanze, avendo sospeso il suo giudizio, i suoi sensi contrassero comunque una specie di sozzura: bisognava dunque che l'Angelo facesse la sua ambasciata in un tempo in cui i sensi, che erano stati scandalizzati, fossero interdetti dalla sospensione della loro operazione.
Vi è, infine, una ragione ben più generale: è che tale fu la Volontà del Signore, che essa è giusta, santa e perfetta in tutte le sue opere.
San Giuseppe non vide, comunque, l'Angelo con le specie immaginarie: egli ne udì solamente la voce e ciò gli bastò per conoscere il Mistero. Egli sentì quello che l’angelo gli diceva , ossia che "non temesse di prendere con sé la sua sposa Maria, perché il suo stato era opera dell'operazione dello Spirito Santo. Che Lei avrebbe messo al mondo un figlio, a cui egli avrebbe dato il nome di Gesù: che sarà lui a liberare il suo popolo dai suoi peccati, e che in questo mistero si sarebbe compiuta la profezia di Isaia, che dice: Una vergine concepirà e darà alla luce un figlio chiamato Emmanuele, che vuol dire Dio con noi ".
Si vede, dalle parole dell'Angelo, che il santo aveva lasciato la purissima sposa in ambasce, per cui, non appena si risvegliò, informato del Mistero che gli era stato rivelato, ed istruito dal fatto che la sua sposa era la Madre di Dio, egli si trovò diviso tra la gioia della sua felicità e della sua sorte insperata ed il dolore di aver fatto quello che aveva risoluto di fare. Egli rese grazie a Dio per il Mistero che gli era stato scoperto e per averlo fatto sposo di Colei ch'Egli aveva scelto per Madre, non meritando di essere suo servitore.
Il dubbio ed il turbamento ch'ebbe San Giuseppe gettarono, in lui. Le fondamenta di una profondissima umiltà, necessaria a colui cui era stata confidata la dispensa dei più alti consigli del Signore. Il ricordo di quello che era accaduto, gli servì di istruzione durante tutta la sua vita.
La felicità e la fedeltà di questo Santo furono incomparabili, non solamente perché egli aveva nella sua casa l'Arca vivente della Nuova Alleanza, ma perché egli la custodì come un servo fedele e prudente. Così il Signore lo costituì sulla sua famiglia, affinché ne avesse cura nel tempo convenevole, come un fedele dispensatore.




Ma come l'Arcangelo convinse Giuseppe? Ascoltiamo ed ammiriamo con quale sapienza egli parla: "Giuseppe, figlio di Davide - gli dice - non temere di prendere con te Maria, tua sposa".
L’angelo menziona dapprima Davide, da cui il Messia doveva nascere; e così calma di colpo tutti i suoi timori, facendogli tornare alla mente, citando il nome di uno dei suoi antenati, la promessa che Dio aveva fatta a tutto il popolo giudeo. Non solo, ma spiega anche perché lo chiama "figlio di Davide", con l'aggiungere le parole "non temere". Dio, attraverso l'Angelo, parla con infinita dolcezza: il "non temere” sta ad indicare che Giuseppe temeva di offendere Dio tenendo presso di sé una potenziale adultera. L'Angelo, cioé, vuol provare, e lo prova a sufficienza, che egli viene da parte di Dio e, dopo aver pronunciato il nome della Vergine, aggiunge "tua sposa", poiché questo titolo mai si sarebbe dato ad un'adultera. Il termine "sposa" sta, ovviamente, qui per "fidanzata".
"Prendere Maria", non indica altro che Giuseppe continui a tenere Maria nella sua casa, dicendogli in sostanza che é Dio che gliela dona, non già i suoi genitori. Egli gliela dona non per i soliti scopi del matrimonio, ma soltanto perché dimori con lui, unendola a Giuseppe per mezzo dell'Angelo stesso che gli parla. Ella èé ora affidata a Giuseppe, come più tardi, sotto la Croce, Cristo La affiderà al suo Discepolo prediletto, figura dell'intera umanità.
"Darà alla luce un figlio - continua Gabriele - e tu lo chiamerai Gesù" (Mt. 1, 21).
Infatti, gli spiega l'Arcangelo, sebbene questo fanciullo sia stato concepito dallo Spirito Santo, non credere per questo di essere dispensato dal prendertene cura e dal servirlo in ogni cosa. Sebbene tu sia estraneo al concepimento e sebbene Maria sia rimasta perfettamente Vergine, tuttavia io ti do il compito di un padre: il compito, cioè, di dare il nome al neonato. Sarai tu, infatti, che gli imporrai il nome e, sebbene egli non sia tuo figlio, tu gli dimostrerai l'affetto, proprio di un padre.
"Per questa ragione - conclude l'Arcangelo Gabriele - ti permetto di dargli il nome, per renderti subito familiare al Bambino".
Per evitare che ciò gli faccia credere che egli sia veramente il padre del bambino che sta per nascere, ascoltiamo con quanta precisione Gabriele gli parla. "Partorirà", egli dice; non dice: partorirà da te, ma dice genericamente che partorirà, in quanto la Vergine non ha partorito Gesù Cristo con Giuseppe e per Giuseppe, ma per tutti gli uomini.
Non dimentichiamo, infine, che nella descrizione della nascita di Gesù, si legge: "promessa ad un uomo, che si chiamava Giuseppe". Lo chiama dunque "uomo", ossia vir, per dire che egli è, non per essere marito, ma "uomo di virtù", nonché uomo di lei.
Egli doveva essere il "suo uomo", perché era necessario che tale egli fosse reputato; così come anche fu chiamato padre del salvatore, perché fosse creduto che lo fosse, ed infatti anche l'evangelista dice: "Gesù aveva quasi trent'anni ed era creduto figlio di Giuseppe" (Lc. 3, 23). Dunque, egli non era né marito della madre né padre del figlio, sebbene per una certa e necessaria disposizione, per un po' di tempo, tale fosse detto e creduto.
Questi è San Giuseppe, il Testimone cosciente della mantenuta Promessa, l'uomo al quale il Signore riconobbe poter affidare i suoi più grandi tesori, l'arcano segretissimo del suo cuore, ed a cui confidò i segreti della sua sapienza e non vuole che fosse all'oscuro del suo Mistero, mistero che a nessun principe o profeta fu mai rivelato; l'uomo al quale fu dato ciò che questi cercarono di vedere e non videro, di sentire e non sentirono. Solo a lui fu dato non solo di vederlo e di sentirlo, ma di portarlo in braccio, di allevarlo, di stringerlo al petto, di baciarlo, nutrirlo e vegliarlo.
La seconda volta l’angelo si presenta a Giuseppe per salvare la vita del bambino seriamente minacciata. I due santi sposi non erano in grado di sfuggire da soli alla furia di erode; anzi non erano neppure a conoscenza della terribile minaccia. Ma l’angelo si precipita da Giuseppe e lo chiama in sogno: “Sorgi! Prendi il bambino e sua madre e fuggi in Egitto! Rimani colà sino al mio avviso! Erode infatti cerca il bambino per ucciderlo”. Egli si alzò che era ancora notte, prese il bambino e sua madre e se ne partì per l’Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode”.
Maria, “la donna fuggì con il bambino nel deserto”, guidata dall’affetto e dalla prudenza di Giuseppe, tutti e tre protetti “ dalle ali della grande aquila”. La fuga della sacra famiglia non sarà stata né comoda né facile. Anch’essa ha sofferto tutta la miseria dei profughi in lotta con la sabbia e col calore del deserto. Ciononostante l’angelo avrà fatto conoscere ai fuggitivi i pericoli, la meta e il tempo. Lo spirito celeste avrà dato loro la forza per cui nel loro animo non albergavano né timori esagerati né nervosismo.
L’ammonimento che l’angelo porta la terza volta, è assai più piacevole: “Morto Erode, ecco che l’angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, che si trovava in Egitto, e disse: “Alzati! Prendi il bambino con sua madre e va nella terra d’Israele! Poiché sono morti coloro che volevano la vita del bambino. Egli si levò, prese il bambino con la madre e se ne partì per la terra d’Israele”. Gesù doveva rimanere in Egitto non più a lungo di quanto fosse necessario per la sua sicurezza. La scarsa conoscenza della bibbia, ha portato qualcuno dei circoli esoterici ad affermare che egli nei parecchi anni di soggiorno in Egitto, avesse imparato l’antica magia dei faraoni e l’abbia poi utilizzata per i suoi miracoli. In realtà egli si è fermato in Egitto non più di due anni e per giunta nella prima fanciullezza. Gesù doveva crescere nella terra d’ Israele, nella cornice geografica e spirituale della rivelazione dell’Antico Testamento: quale straniero venuto dall’Egitto non avrebbe potuto realizzare la sua missione.
E’ stato un angelo a provocare questa deviazione nella sua vita. L’ultima volta che l’angelo ammonitore appare è per vincere l’indecisione di Giuseppe sulla scelta della località del rimpatrio. Anche la Palestina ha i suoi pericoli. Erode era morto ma il figlio Archelao, avrebbe lo stesso soffocato nel sangue un neonato Re dei Giudei. Il vangelo afferma: “Allorché Giuseppe udì che Archelao era al posto di suo padre erode, ebbe timore di andarvi. Ricevette informazioni in sogno e passò nel territorio della Galilea, dove si stabilì in una città di nome Nazareth”. Nella Galilea, fuori dalle grandi strade di comunicazione, Gesù potè maturare nel silenzio e prepararsi alla sua missione divina. L’angelo ammonitore ha terminato il suo compito. A Nazareth la giovane vita del Messia è sufficientemente protetta da Maria e da Giuseppe.
Dal vangelo non conosciamo più alcun intervento angelico fino alla tentazione. Tuttavia è lecito pensare che anche in quel periodo un angelo speciale avrà steso le sue ali sul fanciullo. Quando Gesù più tardi si ricorderà in modo particolare degli angeli dei bambini (Mt 18,10), vorrà probabilmente esprimere un sentimento di gratitudine verso l’angelo, che con tanta cura aveva vigilato sulla sua infanzia, cioè l’angelo ammonitore. E’ curioso che l’angelo sia apparso a Giuseppe tutte quattro le volte in sogno.
A Zaccaria, a Maria ed ai pastori, si è presentato in forma percettibile ai sensi esterni. Una apparizione visibile sembra più sicura e meno soggetta a illusioni: tanto più che sempre è collegata ad una illuminazione interiore. A Giuseppe invece è apparso solo in sogno: ciò era per lui sufficiente e onorevole allo stesso tempo.